La leggenda del fabbro di Fabriano

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Chi mastica un po’ di latino e ha reminiscenze di qualche vocabolo avrà notato che il toponimo di Fabriano nasconde un nucleo rovente. Il nome di questa città racconta storie di mani che lavorano e forgiano la materia, modellando il ferro arroventato per dare forma e sostanza alle idee. Il legame tra la città e la figura del fabbro è così forte da essere impresso anche nello stemma cittadino che rappresenta il lavorante nell’atto di battere il ferro sull’incudine. Sulla scelta di questa immagine, la storia si mescola alla leggenda e distinguere i confini tra realtà e fantasia non è sempre semplice.

Non lo è anche a causa di un eccidio: il 26 maggio del 1435 si compie una delle pagine più oscure della storia della città, lo sterminio della famiglia Chiavelli, signori di Fabriano. Durante la messa in cattedrale, un gruppo di congiurati, appoggiato da buona parte della popolazione, mette in atto l’esecrabile piano e uccide i componenti maschi della famiglia, compresi i bambini. L’orrore prosegue successivamente con l’incendio della biblioteca e dell’archivio della famiglia. Il fuoco manda in fumo preziosi volumi e importanti documenti che avrebbero potuto far luce sul passato e sull’origine della città.

A complicare questo già intricato scenario si aggiunge un articolo apparso il 24 maggio del 1914 nelle pagine del settimanale locale “L’Azione”, che porta la firma di Romualdo Sassi, secondo cui l’origine del nome della città sarebbe da attribuire al gentilizio romano Faberius, che aveva poderi in questa zona. Un’ipotesi che smentisce le ricostruzioni compiute da storici ed eruditi del passato e che facevano derivare il toponimo di Fabriano da faber, “fabbro” al quale si aggiungeva un altro sostantivo che poteva essere amne (faber in amne, fabbro sul fiume) o Ianus, dal nome del fiume cittadino o fanum (faber fanum) che starebbe ad indicare una zona sacra dei fabbri.

Eppure, la costruzione della memoria civica di Fabriano è costruita tutta intorno alla figura di Mastro Marino. La leggenda vuole che presso un largo spiazzo sul greto del fiume un fabbro talentuoso aveva la sua fucina. Egli lavorava per due nobili fratelli che erano perennemente in lotta tra loro e, per questo, risiedevano in due distinti castelli: quello di Castelnuovo (detto anche Poggio) – dove è presente il Monastero di S. Margherita, vicino l’Ospedale di Santa Maria del Buon Gesù – e quello di Castelvecchio, dove ora si erge il Convento di Santa Caterina abitato dai monaci di Monte Oliveto. I castelli erano posti su due alture non troppo distanti fra loro e unite da un ponte che li collegava, sul quale il fabbro esercitava la sua arte. Ogniqualvolta si accendeva un diverbio tra i due fratelli, il fabbro non perdeva occasione per tentare di riappacificarli. Allo stesso modo, quando uno dei due gli domandava cosa pensasse l’altro fratello di sé, il fabbro asseriva deciso che voleva solo il suo bene. Per porre fine a questi accessi e ripetuti scontri che avevano pesanti ripercussioni sugli abitanti dei castelli, un giorno Mastro Marino decise di farli incontrare. Non appena si videro sul ponte antico – dove ancora oggi passa la strada del Borgo – i due fratelli iniziarono a litigare. Dalle parole, dense di rancore e rabbia, presto si passò alle spade. Il duello era ormai inevitabile. Si trovarono così di fronte sul greto del fiume: i corpi divisi solo dal freddo delle lame taglienti. Le urla e lo scontro delle spade richiamarono l’attenzione delle genti che abitavano nei pressi del ponte e che accorsero a vedere da vicino il duello. Ma fecero precipitare anche Maestro Marino che lasciò in un baleno la sua bottega per raggiungere i due fratelli e placarli, come sempre aveva fatto finora, ricordando ai due il legame che li univa. Stavolta le parole del fabbro ebbero una risonanza diversa per i fratelli che, convinti dal brav’uomo, non poterono fare a meno di abbracciarsi, abbandonandosi alla commozione e al perdono reciproco. Da allora, i due fratelli e quindi i due castelli, posero fine ai dissidi e in memoria di quella riconciliazione nacque la città di Fabriano che riuniva le fazioni a lungo rimaste antagoniste. Così scrisse un cronista cinquecentesco, il domenicano Giovanni Domenico Scevolini da Bertinoro per commentare la leggenda:

Le cose piccole mirabilmente riescono, cominciano a dilatarsi e a far terra, che poi chiamarono Fabriano come quella, che per opera del Fabbro, il quale stava sopra del Giano, ebbe principio, e per questo pare, che molto bene si confronti con l’impresa di questa Repubblica, ponendo ella un fabbro col martello sopra l’incudine, e con mantice appresso sopra di un fiume.

Se è vero che in onore del Maestro la città abbia deciso di adottare l’immagine del fabbro per decorare lo stemma della loro città, parimenti si può ipotizzare che il simbolo voglia anche racchiudere un’esaltazione dell’attività artigianale, considerata capace di definire l’identità sociale dei suoi abitanti e praticata in queste zone, stando ad alcuni studi storici, già in epoca romana. È un’iscrizione a documentare l’esistenza di un collegio di fabbri sorto per fronteggiare l’assedio delle truppe di Ottaviano.

Che si tratti di fantasia o di realtà, forse poco importa se osservare lo stemma della città può offrirci ancora oggi una grande lezione: dal ferro e dalle armi può fiorire e rifulgere la pace grazie al buon senso del singolo.

di A. Lucaioli