Dalla Regina Sibilla all’eros popolare: il saltarello marchigiano

Che cosa ci identifica come marchigiani? Molte potrebbero essere le risposte. Una è quella che identifica l’essere marchigiani con l’impegno a tener fede e a nobilitare il folclore, quel sapere che viene dalla cultura popolare e che ha reso la nostra regione grande e plurale. E fra tutte le tradizioni popolari che il nostro territorio potrebbe annoverare, ce n’è una che, più di altre, rappresenta l’appartenenza ai nostri luoghi: il saltarello.

Erroneamente bistrattato come sottocultura, il folclore è quel sostrato che ci restituisce il nostro passato, ci definisce nel presente e ci getta nel futuro con una precisa carta d’identità. Di questa cultura che va valorizzata e onorata, il saltarello, danza popolare tradizionale, costituisce un tassello importante di cui il mito e la storia ci raccontano due diverse versioni.

La narrazione mitica riferisce che il saltarello fosse il ballo delle fate della regina Sibilla. Con indosso zoccoli di legno di fico, le fate danzavano nel loro antro sulla cima della montagna, ovvero sul Monte Sibilla, e ne insegnavano agli uomini la danza e l’arte di costruire lo strumento che quel ballo accompagnava, ovvero il tamburello.

© E. Balestra

Passando dal racconto ancestrale alla scientificità della storia, troviamo nell’epoca romana le prime tracce di questa danza.
L’etimologia ci riporta al latino saltatio indicando una forma di ballo molto popolare tra i latini e diffusa ancor prima della conquista da parte degli antichi romani sopravvivendo anche al passaggio dalla religione pagana a quella cristiana. Pare infatti che la danza, in origine, fosse praticata dai sacerdoti Salii, che la eseguivano durante feste ed occasioni rilevanti per la comunità indossando dei costumi cerimoniali che ricordavano gli abiti degli antichi guerrieri centro italici dell’VIII sec. a. C.

Sopravvissuta nel corso dell’Alto Medioevo, col sopraggiungere del Rinascimento iniziò a diffondersi come danza aristocratica affermandosi, a seguire, anche negli ambienti popolari. Le fonti storiche ne mettono in luce la componente erotica che queste danze dovevano avere tanto più che la chiesa tentava di inibirne la diffusione. Originariamente il saltarello si configurava come ballo di corteggiamento in cui le donne animavano la scena con la loro carica sensuale sebbene altri documenti raccontino di come fosse legato al microcosmo quotidiano: nei momenti di riposo dal lavoro o come scandisse il calendario delle stagioni con la raccolta del grano, la trebbiatura, la vendemmia, la spannocchiatura. 

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La prima fonte diretta che ricuce i primordi di questa antica danza è un manoscritto medievale, meglio noto per gli addetti ai lavori come Manoscritto Add. 29987, oggi conservato alla British Library di Londra. Il manoscritto, concernente la musica italiana del Trecento, contiene opere polifoniche e danze strumentali dapprima riportati in singoli fascicoli appartenenti a differenti località dell’Italia centrale dell’ultimo decennio del XIV secolo e solo poi riorganizzati in un unico volume nella Firenze del 1400, quando poi venne acquisito dalla famiglia dei Medici. Tale codice rappresenta la fonte più autorevole del repertorio musicale italico trecentesco, contenendo i brani dei compositori dell’ars nova italiana tra cui spiccano Francesco Landini, Jacopo da Bologna, Gherardello da Firenze, Niccolò da Perugia ecc.

Nei 123 pezzi riportati, al fianco di madrigali, ballate e motetti, spiccano quattro saltarelli privi di titolo ma certamente destinati al ballo.

Il saltarello è un ballo di coppia, di norma uomo-donna, la cui caratteristica principale è, come ricorda il nome stesso, il salto. Si tratta di una danza vivace, ritmata, energica e faticosa che prende l’avvio quando i ballerini sono posti l’uno davanti l’altro: l’uomo con le braccia dietro la schiena, la donna con le mani sui fianchi. Da qui inizia una coreografia cadenzata da movenze di fughe e riprese, con la mimica che enfatizza espressioni di dispetto o corteggiamento. Il “giro” e lo “sponda piè”, ovvero lo spunta-piede – un passo calciato in avanti che si inserisce a seguito di una precisa variazione musicale – sono un esempio di passi tipici del saltarello, che però non manca di lasciare campo libero anche all’improvvisazione e all’ispirazione del momento. Il ballo termina quando i due ballerini raggiungono l’intesa che scenicamente avviene tenendosi per le braccia, saltando su entrambe le gambe ed effettuando, con passi laterali, l’uscita di scena.

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Gli strumenti privilegiati per accompagnare i ritmi della danza sono il tamburello e l’organetto: quest’ultimo, in particolare, è divenuto il simbolo della città di Castelfidardo, dove già nella seconda metà dell’Ottocento prese avvio la fiorente industria italiana della fisarmonica. Tuttavia anche il violino e il violone possono far parte dello strumentario musicale del saltarello, sebbene siano più presenti nella zona del fabrianese.

Che si tratti del “Ballo delle fate” o che si riconduca alle saltationes antiche, poco importa. Il saltarello è custode di un patrimonio culturale senza tempo e una delle poche tangibili testimonianze che ci restano dell’antica civiltà Picena. È anche per questo che sono state intraprese azioni per proteggere e valorizzare il saltarello marchigiano inserendolo nella lista dei beni immateriali che l’Unesco dichiara come patrimonio dell’umanità. E per questo che si tenta, nelle tante scuole di danza del territorio, di avvicinare ancora oggi i giovani a questa danza arcaica non con l’obiettivo che tutti debbano necessariamente praticare questa danza o suonarne gli strumenti caratteristici ma con l’intento di far sì che possano acquistare maggiore sensibilità e rispetto nei confronti di un passato in cui possono recuperare le loro trame e di un futuro in cui possono tessere le fila di un nuovo ordito.

di A. Lucaioli