Carlo, il papà

Carlo Urbani raccontato del figlio Tommaso

Tommaso Urbani è il più grande dei tre figli di Carlo Urbani, medico che nella lotta contro la Sars salvò tante vite ma perse la sua. Oggi il primogenito di questo grande uomo ci racconta, semplicemente, suo padre.

Il rischio, quando si fa qualcosa di grande nella propria vita, è quello di essere ricordato come un personaggio e non come una persona. Certo, i nostri cari sapranno sempre perfettamente chi siamo, nel profondo, veramente, cosa ci fa ridere e cosa ci fa arrabbiare. Ma i più ci identificheranno con quello che abbiamo fatto e non con quello che siamo. Che, a ben vedere, quando si è lasciato un segno fortemente positivo, è anche una bella cosa. Ma è comunque sempre una parte di un tutto. Ed è molto più bello avere orizzonti ampi, punti di vista differenti e non un solo monolite a rappresentarci.
Quest’anno ricorre il 10° anno dalla morte di Carlo Urbani: medico che per curare una delle malattie più terribili del nostro secolo, la Sars, finì per dare in pegno la sua vita. Che abbia avuto un grande cuore dunque, lo si capisce già da questo.
Ma abbiamo voluto spostare ancora un po’ il velo che separa il personaggio dall’uomo. E per farlo abbiamo chiesto l’aiuto di suo figlio Tommaso, che adesso ha 26 anni e che il papà continua a tenerlo ancora con sé. E si avverte, anche se la voce metallica del telefono toglie un po’ di poesia alla nostra chiacchierata.

Si è sempre parlato di Carlo Urbani, il medico. Aiutaci ad entrare un po’ di più nel suo mondo personale…
“Di certo è stato un medico, un ricercatore appassionato e un uomo che ha voluto aiutare in tutti i modi chi soffriva. Ma Carlo Urbani era anche un marito ed un padre, il mio e dei miei due fratelli (Tommaso ha una sorella e un fratello minori, ndr). Nonostante quello che si possa credere, come padre era molto presente anche se spesso era fuori per lavoro. Quando ci siamo trasferiti, prima in Cambogia e poi in Vietnam, le missioni lo portavano lontano da noi per molto tempo; ma ci tenevamo in contatto, se partiva per brevi missioni quando eravamo in Italia, con una fitta corrispondenza, per non perdere mai il legame. E poi, quando era a casa con noi sapeva sempre come recuperare il tempo perso!”.

Ti va di raccontarci un aneddoto particolare a questo proposito?
“Certo! Questa è uno dei ricordi di cui parlo più volentieri perché credo renda benissimo l’idea di che padre era. Io ero piccolo e lui doveva partire per 2-3 settimane. Ovviamente, come ogni volta, ero molto dispiaciuto che lui dovesse allontanarsi da me. E lui lo sapeva. Quindi si inventò una caccia al tesoro, che sarebbe dovuta iniziare solo una volta che lui fosse lontano: non solo un modo per tenermi occupato in sua assenza ma anche per far sì che continuassi a sentirlo vicino perché era qualcosa che aveva fatto per me, per non farmi arrabbiare e sentire la sua mancanza”.

Che rapporto avevi con tuo padre?
“E’ morto quando io avevo 16 anni, nel pieno della mia adolescenza, un’età di certo particolare. Ma con lui ho sempre avuto un rapporto di forte complicità. Io sono il più grande tra i figli e ho sempre condiviso le sue scelte e le sue idee. In me ha sempre trovato pieno appoggio. Mi ricordo di quando si doveva decidere se partire prima per la Cambogia e poi per il Vietnam. Nel primo caso mio fratello aveva solo un anno, mentre quando arrivò la proposta del Vietnam mia sorella era nata solo da un paio di mesi. Ovviamente mia mamma era piuttosto titubante. E lui chiese a me di appoggiarlo mi disse “dobbiamo convincere la mamma!”. A me è sempre piaciuto viaggiare, conoscere nuove culture. E poi sapevo che quello era il suo desiderio, il suo sogno”.

Dunque in tutte le sue decisioni, la famiglia è sempre stata al primo posto!
“Sì, ci coinvolgeva sempre tutti. Certo, fin quando lavorava in pianta stabile a Macerata era tutto più semplice: era un consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che in qualche caso faceva dei viaggi di lavoro, ma niente di definitivo. Quando poi arrivò l’opportunità di partire per la Cambogia, la situazione diventò più delicata. Avremmo dovuto andarcene per un anno e la prima cosa che fece fu parlarne con noi, con la sua famiglia. E noi abbiamo accettato: sono esperienze che vanno vissute! Anche una volta arrivati in Cambogia e poi in Vietnam tutti noi continuavamo ad essere parte integrante della sua vita: ci raccontava, ci coinvolgeva, voleva che vivessimo completamente immersi nella cultura del luogo. Era una crescita per tutti, non solo per lui a livello professionale!”

Queste esperienze di vita come hanno contribuito a formarti?
“Vivere in contesti profondamente diversi da quello italiano mi ha molto aperto la mente. Mi ha dato una formazione completamente nuova non solo a livello scolastico, frequentavo il liceo francese, ma nei confronti della vita in generale, del modo di vivere e vedere le cose”.

Hai mai pensato “ma perché mio padre non ha scelto di fare il ferroviere? Forse sarebbe ancora qui…”?
“No, non mi è mai venuto in mente. Ovvio, ho pensato tante volte “perché proprio lui?”. Però non si può tornare indietro: è andata così e so che lui non avrebbe rimpianti. Questo era il suo lavoro, quello che amava. Ha sempre fatto le scelte giuste e d’altronde nessuno avrebbe potuto fermarlo: il suo scopo era curare le persone, aiutarle. Era il suo sogno fin da bambino: se c’era bisogno interveniva. Se oggi si potesse tornare indietro, sono certo che mio padre rifarebbe le stesse scelte e noi non potremmo volere altro: questo era lui. Certo è andata male. Però nessuno di noi ha dei rimpianti”.

Tuo padre è stato una figura fondamentale. Si capisce da come ne parli. Però non hai seguito il suo esempio a livello lavorativo. Come mai?
“Una volta tornato in Italia dopo la sua morte, ho continuato a frequentare il Liceo. Ero convinto di voler fare il medico, ho anche fatto i test di ammissione all’Università di Medicina. Ma più andavo avanti, più sentivo che non ero io quello, mi chiedevo perché lo stavo facendo. La verità era che mi sentivo in dovere, mi autoconvincevo che quella fosse la mia strada, ma non era così. E tra l’altro mio padre non avrebbe mai voluto questo per me: non avrebbe avuto senso, ognuno deve fare la sua strada, quello che sente dentro. Così mi sono iscritto ad Interpretazione a Forlì ed ora sto facendo la specialistica a Trieste alla Scuola per Interpreti. E sono felicissimo della mia scelta: sarebbe stato qualcosa di forzato”.

Lasciamoci con un ricordo…qualcosa di tuo padre che vuoi dirci?
“Tantissime cose mi sono rimaste di lui, le ho dentro. Quand’era ancora vivo ha sempre cercato di farmi capire cose che solo ora comprendo fino in fondo: ero in piena adolescenza, non ero ancora maturo quando ci ha lasciati. Lui mi spiegava sempre tutto, i suoi principi ed i suoi valori. Ed oggi li ho interiorizzati. Riesco a vedere chiara l’importanza del suo lavoro e non solo come medico, ma anche di ambasciatore di pace: si è battuto per permettere a tutti di avere accesso alla salute, qualcosa di molto difficile da portare avanti. Sì, lui ha scoperto Sars e nel tentativo di curarla ne è rimasto vittima. Ma non va dimenticato tutto il lavoro fatto dietro e quello dei tanti altri medici che insieme a lui vivevano situazioni al limite. Nel 2003 è stata creata AICU – Associazione Italiana Carlo Urbani – per portare avanti questi principi e tutelare la salute dove ancora non è che un miraggio. L’ Associazione è molto attiva; tante sono state le iniziative per ricordare il decennale della scomparsa di mio padre. La prossima sarà nella serata del 7 giugno a Frasassi, in occasione della quale verranno lette delle sue missive, per ricordarlo ancora una volta”.