Sant’Ippolito e l’arte degli scalpellini

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Dalla sommità di un colle, poco distante dalla sponda destra del basso Metauro, incorniciato da un ameno paesaggio verdeggiante di campi coltivati, filari di viti e alberature rigogliose sorge il borgo di Sant’Ippolito. Il piccolo Comune, che conta poco meno di 1500 abitanti, venne fondato dai fossombronesi tra il VI e il VII secolo e deve il suo nome a un’antica basilica dedicata ai santi Ippolito e Lorenzo, un tempo ubicata lungo la via Flaminia.

Eppure, il borgo è noto anche con un altro appellativo che gli viene attribuito già dal XIV secolo: il paese degli scalpellini. A legittimare questo epiteto è il talento artistico e l’abilità degli artigiani nella lavorazione della pietra arenaria.

La copiosità di cave di pietra e di marmo favorirono, già in epoca romana, le prime forme di attività produttive finalizzate al rifornimento di materiali e di manodopera specializzata ai cantieri situati anche in aree lontane. Dopo secoli di lavorazione come materiale da costruzione, l’abbondanza della pietra trovò nuova forma iniziando ad essere utilizzata nelle botteghe artigiane che fecero di quest’arte un grande simbolo della città. Augusto Vernarecci, sacerdote vissuto a cavallo tra Otto e Novecento che spese la sua esistenza nella ricerca storica e nella salvaguardia dei beni locali, sintetizzò così le ragioni della fama di Sant’Ippolito:

Alla dimenticanza, a cui gli abitanti di Sant’Ippolito sarebbero stati inevitabilmente condannati dalla piccolezza del luogo, essi sfuggirono col darsi fino da remota età al lavorio delle pietre.

I reperti storici indicano in Aimonetto da Sant’Ippolito, il primo maestro locale dell’arte dell’intarsio della pietra arenaria. Tracce della sua opera furono rinvenute ad Avignone già nei primi decenni del XIV secolo, quando l’abile scalpellino fece, per quell’epoca, un avventuroso viaggio di ottocento chilometri prestando servizio presso il Palazzo dei Papi.

Sotto il dominio del Duca Federico da Montefeltro, nel XV secolo, i maestri scalpellini poterono affinare la loro tecnica, grazie alle contaminazioni e alle influenze con artisti di varia provenienza chiamati dal Duca alla sua corte come l’architetto senese Francesco di Giorgio Martini, il dalmata Luciano Laurana, il fiorentino Domenico Rosselli e una schiera di “maestri lombardi” dell’arte della pietra. Fu però con i duchi di Urbino Guidobaldo II, prima, e Francesco Maria II della Rovere, poi, che venne realizzata la celebre cappella dei duchi della Rovere fatta costruire all’interno della Basilica di Loreto. L’altare e le decorazioni in pietra bianca del Metauro furono realizzati da cinque artisti santippolitesi: i fratelli Pierfrancesco, Matteo e Gabriello di Maestro Hippolito, Costantino di Maestro Agostino e Anfranio di Thomasso suoi nipoti. I cinque, grazie alla loro abilità artistica, vennero graziati dalla condanna alla pena capitale per omicidio che pendeva sul loro capo.

Fu però il Settecento ad essere per Sant’Ippolito il secolo di maggior splendore: le famiglie Ascani, Fabbri, Rodoloni lavorarono la pietra in tutte le Marche fino alla Romagna. Il piccolo borgo si era trasformato in un centro non solo di lavorazione della pietra locale ma anche destinazione di marmi finissimi. Un crocevia di materie e saperi: punto di riferimento per il centro Italia.

Le mode architettoniche cambiano, l’estetica muta così come variano le esigenze dei suoi destinatari. Ma l’arte è tale quando trascende la circostanza e la forma oltrepassa le coordinate del tempo e anche la tecnica degli scalpellini venne a modificarsi riversandosi nell’impiallacciatura dei marmi provenienti dai colli euganei: questi giungevano per mare fino al porto di Fano e da lì, disposti su dei birocci trainati da buoi, raggiungevano le botteghe artigiane del paese. Una volta lavorate sul posto, risalivano la valle del Metauro.

L’intenso operato degli artigiani si esprime anche nella poliedricità di ruoli che andavano a rivestire: talvolta nelle vesti di scultori, altre in quelle di semplici intagliatori, altre ancora esecutori o progettisti di modelli propri.

Oggi la chiesa parrocchiale di San Giuseppe, situata dentro le mura del castello, conserva importanti esempi di pietra arenaria e custodisce altri manufatti come la Madonna policroma con San Giovannino e gli angeli e la scultura dipinta di San Rocco ma, a onore del vero, l’intero centro storico di Sant’Ippolito può essere definito un “museo a cielo aperto” in virtù della pluralità di fregi e decorazioni architettoniche  dai toni azzurri e gialli che impreziosiscono gli angoli più suggestivi del borgo. Ogni dimora è una piccola opera d’arte che testimonia il plurisecolare operato degli scalpellini. Se guardare al passato è importante per costruire la memoria civica di un luogo e di chi lo abita, è nel presente che vanno seminati gli elementi germinativi di trasmissione e di cura del patrimonio artistico e culturale del territorio. In quest’ottica, il paese si sta muovendo in direzione di pratiche di tutela e di valorizzazione di quest’arte così antica e così sopita attraverso corsi di formazione, attività di ricerca e documentazione e manifestazioni dedicate ad un simposio di scultura in cui artisti provenienti da diverse località italiane o straniere realizzano opere scultoree capaci di restituire al paese la propria identità. 

di A. Lucaioli