C’era una volta il corredo…

La dote e i doni matrimoniali nella tradizione popolare marchigiana

A ventotto anni le domande della nonna sulla tua futura e ancora ipotetica vita di coppia si fanno sempre più incalzanti, ricordandoti, ancora una volta, che lei a ventidue aveva già tua madre. A questo ci si fa il callo ma rimani invece senza parole quando ti dimostra che è inequivocabilmente giunta l’ora dalla mole di asciugamani, lenzuola, tovaglie e centrini che lei, stando dietro ai tuoi tempi un po’ lunghi, ha dovuto continuare a preparare per te, decorandoli pazientemente con bordini all’uncinetto, intagli, punto croce, erba, centina e altri sconosciuti. Ora ingombrano metà di un suo apposito armadio insieme alle altre cose preparate per gli altri nipoti più piccoli e mentre lei non vede l’ora di fare un po’ di spazio per sé tu ti domandi solo come farai a riporle tutte nei tuoi 50 metri quadrati di appartamento ma comprendi anche il grande amore di una nonna e il valore di tale impegno, oggi completamente dimenticato.

Fino a qualche decennio fa, la dote era considerata indispensabile per aspirare al matrimonio al punto che nessuna ragazza avrebbe potuto illudersi di trovare marito se i familiari non fossero stati in grado di assicurarle un minimo di beni dotali. Per tale ragione, fin dai primi giorni di vita della bambina, la mamma e la nonna si adoperavano per realizzare il corredo nuziale che un giorno lei avrebbe portato in dote al marito. Solo nelle famiglie più ricche il lavoro era affidato a ricamatrici salariate mentre in quelle più modeste la produzione avveniva completamente in casa: in inverno era tessuta la tela, in estate il telo grezzo veniva lavato e steso al sole più volte; solo in questo modo, dopo ripetuti lavaggi e asciugature, il panno diventava bianco e fine, pronto per essere lavorato da forbici, ago e filo. Così erano confezionate lenzuola di sopra e di sotto, asciugamani, tovaglie e tovaglioli, copriletti ma anche la parte del corredo personale della ragazza, biancheria intima, camicie da notte, vestaglie, scialli, calze, busti e fazzoletti che venivano poi accuratamente conservati nella grande cassa di legno, tra naftalina e mazzetti di “spighetta” con altri doni. La qualità e quantità del corredo variavano secondo la condizione economica e sociale della ragazza: poteva essere da ventiquattro, dodici, otto, sei o anche quattro pezzi per ogni tipo; non tutti i genitori erano in grado di “dotare” in maniera soddisfacente le proprie figlie, ma ogni famiglia era disposta ad affrontare enormi sacrifici pur di assicurare alla donna prossima al matrimonio almeno il minimo che richiedeva la sua posizione sociale perché dal corredo dipendeva la considerazione della famiglia e della ragazza. Tutti i capi del corredo erano segnati su un foglio, la “stima”, che restava presso i genitori della ragazza per evitare possibili sospetti d’imparzialità tra le figlie, ognuna delle quali aveva diritto a un trattamento identico; nel caso di una famiglia abbiente la stima era controfirmata da un notaio e conteneva anche l’elenco dei beni immobili e del denaro lasciato in dote.

Fino agli anni ’50 inoltre vi era un rituale, rispettato scrupolosamente per tener lontana la cattiva sorte, per il trasferimento del corredo da casa della sposa a quella dello sposo, fissato alcuni giorni prima della data delle nozze. Protagonista era il biroccio, tirato a lucido e trainato da buoi ornati da nappe di lana rossa, fiori e campanelli e condotto dal padre o dal fratello maggiore della ragazza. Il biroccio trasportava la cassa nuziale, contenente il corredo, alla quale in seguito si aggiunse il comò, la specchiera, l’armadio, le lenzuola, le federe, “lu pajaricciu”, cioè il materasso riempito di foglie di granturco. Dalla cassa, lasciata volutamente semiaperta, fuoriuscivano le più belle lenzuola ricamate, mentre appoggiate su quella e sul comò facevano bella mostra le coperte più preziose. Seguivano e precedevano il carro i familiari e due donne, amiche o sorelle della sposa, che poi si sarebbero occupate anche della preparazione del letto nuziale, con le ceste di vimini in testa, contenenti i cuscini ricamati o la toletta con brocca, catino e vaso da notte. Il suono dei campanelli richiamava la curiosità di quanti abitavano lungo il tragitto che si avvicinavano per osservare, valutando l’operato della famiglia e l’abilità di tessitrice, cucitrice e ricamatrice della ragazza.

Senza dubbio, per la mia futura sistemazione comprerò solo ciò che mi è indispensabile all’Ikea, dai tessuti supersintetici, colori sgargianti e stampe che rivedrò ovunque; ma troverò il modo di stipare e custodire gelosamente questi preziosi tesori e immagino che un giorno sarà bello poterli mostrare a figlie e nipoti e poterne parlare come se fosse una bella favola che ha per morale lo straordinario valore del lavoro e del risparmio e una femminilità ormai persa.

di S. Brunori